Identità vocazionale e motivazione

AUTORE: Dott.ssa Beatrice Leonello – Psicologa Clinica e della Salute

Pubblicazione – ANNO 6 MAGGIO 2023 – ISSN: 2612/4947

ABSTRACT

Background: L’identità vocazionale è un aspetto centrale della “costruzione di sé” di un individuo: è una scelta in cui il piano razionale e consapevole s’intreccia fortemente a quello più inconscio dei sentimenti d’identità e appartenenza, delle rappresentazioni ideali della vita e delle aspettative personali. Il presente studio è stato realizzato tra il 2020 e il 2022, per indagare gli aspetti legati alla motivazione e all’identità vocazionale che spingono ognuno di noi a intraprendere un determinato percorso professionale piuttosto che un altro.

Metodologia: Il metodo scelto per lo studio ha previsto la somministrazione dell’intervista  biografica, strumento qualitativo basato sulla storia di vita della persona intervistata, e la successiva analisi di contenuto strutturata. Il tutto è stato supportato dallo studio della letteratura scientifica. I dati raccolti riguardano un campione di 12 soggetti (6 Giovani – 3 uomini e 3 donne – e 6 Adulti – 3 uomini e 3 donne), a cui è stato chiesto di rispondere ad una serie di domande aperte.

Discussione: Analizzando i dati dello studio è emerso che il processo di sviluppo dell’identità vocazionale, strettamente legato al tema della motivazione, coinvolge tutto l’arco dell’esistenza e viene influenzato dalle esperienze di sperimentazione di sé nei differenti contesti di vita.

Conclusioni: I risultati ottenuti dimostrano che lo sviluppo dell’identità vocazionale, in quanto processo dinamico di crescita, si realizza nel contesto della vita e della maturazione di ogni persona.

INTRODUZIONE

La motivazione può essere descritta come l’insieme delle dinamiche che attivano, dirigono e sostengono le cognizioni, i valori, gli affetti e le azioni ed è influenzata dalla relazione con l’ambiente attivo. La questione relativa alle origini delle componenti della motivazione e dei rapporti che esse intrattengono fra di loro è molto dibattuta. In numerose teorie psicologiche la motivazione è diretta verso la riduzione di una tensione mediante il perseguimento di mete oggettuali che soddisfino una pulsione. All’origine di un comportamento può stare sia la risposta a dei bisogni, i quali si esprimono e si elaborano in forme diverse, sia la tensione verso determinati obiettivi. È stato verificato che esistono motivi primari (o originari), che influenzano il comportamento, ed altri secondari, riconducibili ad interferenze e pressioni socio-culturali. Non c’è consenso fra gli studiosi sull’ipotesi che i motivi secondari siano derivati da quelli primari in quanto si avanza l’idea che i motivi secondari possano avere una propria originalità indipendente e talvolta possano essere perfino in contrasto con i bisogni fisiologici. In sintesi il bisogno è qualcosa che parte dal corpo, che nasce da una spinta interna. Questa spinta può essere attivata sia da bisogni primari, fondamentali per la sopravvivenza fisica e psichica (ad esempio, mangiare, bere, dormire, scaldarsi), sia da bisogni secondari, altrettanto essenziali (come il bisogno di avere una bella casa, un lavoro gratificante, una bella macchina, essere apprezzati dagli altri e via dicendo), ma legati ad un processo di differenziazione competitiva e omologazione sociale. Il bisogno parte da un oggetto che manca ed attiva un’azione concreta per ottenerlo. Il risultato sarà il piacere per averlo ottenuto o la frustrazione per non esserci riusciti. Il ciclo del bisogno quindi si esaurisce nel soddisfacimento di una esigenza, più o meno importante. E poi si riparte con un nuovo bisogno e una nuova soddisfazione. Questo ciclo può essere vitale, ma può essere anche il principio che domina le dipendenze: il mio corpo ha bisogno di una determinata sostanza, agisco per ottenerla, appena ottenuta mi calmo, passato l’effetto, si ricomincia. Il desiderio ha invece una radice diversa, non è una mancanza che sta nel corpo o nella psiche, ma è una mancanza che sta fuori dal corpo o dalla psiche, e non è una mancanza di un oggetto, sostanza o comportamento concreto, ma un vissuto, un processo, un’azione psichica che tende verso qualcosa. Il desiderio non porta alla soddisfazione immediata di qualcosa e nemmeno lascia immobili in attesa di qualcosa. È una spinta che mette in cammino verso una determinata direzione.La vocazione richiede, per essere consistente, uno stretto rapporto di interconnessione tra i desideri (che rappresentano l’Io ideale) e i bisogni (che spingono l’Io attuale nella realizzazione di sé). In ambito religioso è nota la teoria di L. M. Rulla (1997), psichiatra, psicologo e teologo, fondatore dell’Istituto di Psicologia della Pontificia Università Gregoriana (1971), il quale definisce la vocazione come «consistenza autotrascendente», indicando il rapporto di sintonia e congruenza che corre tra bisogni, valori e «autotrascendenza». In ambito psicologico, invece, lo sviluppo dell’identità vocazionale riguarda un processo che coinvolge tutto l’arco di vita e viene influenzato dalle esperienze di sperimentazione di sé nei differenti contesti dell’esistenza. La declinazione del Sé “a lavoro” (o Sé professionista) contiene in misura maggiore o minore al suo interno l’identità vocazionale come un agente attivo o come un ostacolo dei processi di sviluppo della carriera professionale, che include l’autopercezione degli interessi, delle abilità, delle credenze di autoefficacia e delle aspirazioni riguardo alla sfera professionale. Il suo sviluppo condivide le sorti, da un certo punto della vita in poi, con quello dell’identità personale. L’identità, infatti, determina sia il senso che gli individui hanno della loro continuità nel tempo e nello spazio, sia la consapevolezza della propria unicità. Sulla base di queste dimensioni concettuali, la loro correlazione e la Teoria della ghianda di J. Hillman (1996), sono state poste le basi di questa ricerca sull’identità vocazionale. Gli elementi essenziali della Teoria della ghianda che è utile sintetizzare in questa sede, partono dal presupposto che ognuno di noi possegga un talento innato, un daimon che aspetta solo di avere voce e di essere svelato, un destino interno, una “interiorità” cui siamo chiamati fin dalla nascita, che spesso si manifesta più liberamente soprattutto nell’infanzia e che, “dimenticata” durante la crescita, aspetta solo di essere riscoperta. Per rendere meglio il concetto, è possibile utilizzare la metafora delle querce. Un seme di quercia nel corso del tempo darà vita necessariamente a una quercia, non a un pino né a un frassino né a un abete. Ogni quercia ha delle peculiarità che la rendono unica, tuttavia sempre di quercia si tratta. E così, secondo Hillman, succede agli esseri umani, che nascono con uno o più talenti peculiari, spesso dimenticandosene strada facendo. Quindi ognuno di noi è come una ghianda potenzialmente quercia, a dispetto delle teorie che ci vogliono solo frutto del contesto antropologico, ambientale, sociale e/o familiare. In realtà i condizionamenti esterni agiscono su di noi, ma siamo altro oltre ad essi. Il problema della vocazione è che nella maggior parte dei casi la dimentichiamo. Ma attenzione, il punto di vista dell’autore non è fatalista come potrebbe apparire a primo acchito: egli infatti ritiene che l’individuo sia responsabile delle proprie scelte e in effetti dipende proprio da lui la capacità o meno di ricontattare (di “ascoltare”) il daimon, la vocazione innata. Non è nemmeno detto che la ghianda diventi quercia perché, sebbene in potenziale lo sia, potrebbe essere distrutta prima che questo si liberi, oppure potrebbe rimanere piccola per una serie di motivazioni, ammalarsi e via dicendo. Il daimon è anche una presenza invisibile che si prende cura di noi quotidianamente e che, secondo Hillman, può emergere in momenti inaspettati ma cruciali. Le implicazioni pratiche della Teoria della ghianda riguardano il fatto che ognuno di noi è un essere unico ed irripetibile e come tale possiede una propria vocazione, propri talenti che lo contraddistinguono e differenziano da ogni altro essere vivente. Se siamo unici è quindi opportuno dedicarci ad aree specifiche che si confanno alla nostra essenza. La missione della nostra vita sarebbe quindi sviluppare la nostra vera natura, il talento innato che ognuno di noi possiede, il daimon. Per chi teme di non riuscire a trovarlo, può essere utile rispondere a questa semplice domanda: “Cosa mi riesce con facilità?”. Tutto ciò che si realizza spontaneamente, senza sforzo rivela ciò per cui si è portati, quello che è in linea con la nostra essenza. Per contro, se quello che stiamo facendo, studiando, o intraprendendo presenta numerosi “imprevisti”, sforzi eccessivi, disagi interiori, allora probabilmente non è la nostra strada. È opportuno tuttavia fare una precisazione: senza sforzo non significa senza impegno e senza fatica, ma senza forzature. Impegnarsi con passione in qualcosa di gratificante è ben diverso dall’ostinarsi in un’attività che crea malessere o alienazione. Ancora, dal momento che non si vive per accontentare gli altri o seguirne i progetti che hanno fatto per noi, la Teoria della ghianda di Hillman (1996) si lega molto bene ad un altro importante concetto psicologico: quello dell’individuazione (Jung, 1964). Per illustrare il processo di individuazione è possibile ricorrere all’esempio del linguaggio. Gli esseri umani parlano con un linguaggio che hanno adottato dalla propria famiglia, dal proprio ambiente, dalla propria città. Questo linguaggio ha una sua musicalità, ha una sua melodia, per cui è possibile, non appena una persona apre bocca, comprendere subito da quale regione geografica provenga. Risulta quindi evidente che, per il semplice fatto di vivere in un determinato luogo, non si può che parlare con la musicalità di quel luogo. Meno evidente invece è che, come si è assorbita questa musicalità del linguaggio, si siano poi assorbite altre cose, per esempio gli atteggiamenti e i valori familiari e sociali. La domanda, che a questo proposito si pone Jung è la seguente: ma è proprio vero che questi valori, che abbiamo assunto, siano i nostri, legati alla nostra vita, oppure sono delle cose di cui ci siamo appropriati, così come ci siamo appropriati della musicalità della nostra lingua? Ebbene, il processo di individuazione è un allontanamento, una differenziazione da valori esterni, che Jung definisce valori collettivi. Tale processo consente di ritrovare dei valori, che Jung denomina valori individuali, molto più autentici, veri, e soprattutto fondamentali per la vita di ognuno (Jung, 1964). Tutti possiedono dei “valori individuali”, ma quanti fanno lo sforzo di riconoscere come sia necessario liberarsi dai “valori collettivi” che ci sommergono? In effetti la complicazione sta nel fatto che viviamo un’esistenza che è condizionata dagli altri. Molte volte il condizionamento degli altri può essere anche positivo, perché la nostra è una vita di “individui in relazione” che non possono e non devono fare a meno del resto del mondo. Ma intanto possiamo essere quello che siamo se ci diamo questa differenziazione che per molti aspetti fa paura. L’individuo infatti deve diventare unico, una persona con una coerenza interna che gli permetta di essere finalmente padrone delle sue motivazioni, dei suoi valori e, soprattutto, responsabile della sua vita. Per diventare unico, per essere ciò che è, l’individuo si “prende delle libertà” che è poi necessario restituire al mondo. Individuarsi significa diventare se stessi, attuare il proprio Sé. Individuazione potrebbe essere dunque tradotto anche con “attuazione del proprio Sé” (o “realizzazione del Sé”). L’individuazione implica, dunque, un modo di costruire le relazioni, un migliore e più completo adempimento delle destinazioni collettive dell’uomo, poiché un’adeguata considerazione della singolarità dell’individuo favorisce una prestazione sociale migliore di quanto risulti se tale singolarità venga trascurata o repressa. L’individuazione non va però confusa con l’individualismo, il quale può essere definito come un mettere intenzionalmente in rilievo le proprie presunte caratteristiche in contrasto coi riguardi e gli obblighi collettivi. Infatti, non c’è persona in questo mondo che abbia portato nella propria vita una dimensione di novità che non abbia dovuto pagare un prezzo nella restituzione al mondo delle libertà che si è presa.

LO STUDIO

La motivazione è il leitmotiv dell’intero ciclo della nostra vita. Essa ci alimenta e ci sostiene, cambia, incontra ostacoli e ciò nonostante cresce ed evolve con noi. Le storie raccolte all’interno di questo studio raccontano di come ciò accade, e dell’intreccio quasi indistricabile tra motivazione, bisogni, desideri, sviluppo dell’identità vocazionale e ciclo di vita. Nelle biografie professionali raccolte è possibile rintracciare lo snodarsi del racconto tra le scelte, le sfide e gli stadi di vita delle persone intervistate, nonché le modalità in cui esse hanno gestito le loro personali motivazioni.

STRUMENTO DI RICERCA E PROCEDURA DI SOMMINISTRAZIONE

Lo strumento scelto per la ricerca è stato l’intervista  biografica, poiché è un tipo di strumento a basso grado di strutturazione che si basa essenzialmente sulla storia di vita della persona intervistata. Il suo utilizzo mette in risalto le personali percezioni che le persone hanno della propria storia di vita o di particolari frangenti di essa. Tramite la narrazione di sé, l’intervista permette, infatti, la messa a fuoco dei vissuti dei singoli individui, facendo emergere le diverse dimensioni del vissuto, da quella cognitiva ed affettiva, a quella valoriale (D’Ignazi, 2013). L’intervista biografica, inoltre, è applicabile a campioni tratti da diverse popolazioni di riferimento e diversi target d’età.  A differenza di altre tecniche d’indagine maggiormente orientate alla standardizzazione, l’intervista biografica, ispirata alla ricerca interpretativa, è volta a rilevare le “buone ragioni” che stanno alla base di determinate motivazioni, intenzioni, credenze degli individui (Trinchero, 2002). Per tale motivo, la conduzione dell’intervista biografica è simile a quella dell’intervista libera: non vengono poste domande già strutturate a priori quanto piuttosto viene “avviata” una comunicazione intervistatore-intervistato tramite lo stimolo “Parlami della tua esperienza di …” oppure “Raccontami la tua vita [a partire da]…”. L’intervistatore, che assume un approccio non direttivo, riprende la parola solo quando il racconto “latita” o nel caso in cui alcuni passaggi del racconto non siano perfettamente chiari e richiedano delucidazioni. All’intervistatore è richiesto un atteggiamento volto all’ascolto attivo, non valutativo ed orientato a far emergere la rappresentazione altrui di un determinato avvenimento. La dimensione temporale, intrinseca nell’atto della narrazione, diventa centrale: la riflessione ex post di un’esperienza passata costituisce, infatti, una sorta di auto-racconto che “consente all’intervistato di spiegarsi e di argomentare, di dare, con le parole, un senso alla propria esperienza, di ri-costruire connessioni e modelli, di valutare e comparare in funzione del proprio divenire sociale” (Bichi, 2002). L’intervista biografica professionale utilizzata all’interno di questo studio ha previsto come domanda di apertura “Raccontami la storia della tua vita”. Generalmente, nel raccontare la storia della propria vita, le persone intervistate hanno fatto riferimento alla loro “vita professionale”, partendo da un punto preciso (periodo della scuola superiore/dell’Università). Alla domanda di apertura molti hanno risposto “Da dove comincio?” e, per evitare condizionamenti, è stato fornito come risposta un semplice “Da dove vuoi”. Alla fine di ogni periodo (scuola, Università, ultimo impiego – se primo impiego, ultimi sei mesi – ecc.) sono state poste tre domande fondamentali: 1) “Come ti vedevi?”; 2) “Quali desideri/passioni avevi?”; 3) Cosa ti aspettavi di trovare più avanti? / Cosa vedevi davanti a te?”. Per incalzare le persone intervistate a fornire più informazioni, in alcuni casi è stata utilizzata un’ulteriore domanda: “Perché?”. “Perché?” è l’unica domanda incalzante «concessa» durante un’intervista narrativa (non in tutti i casi).

CAMPIONE

Le persone intervistate sono state 12 in totale, suddivise in due sottogruppi: un gruppo di Adulti (A), composto da 3 uomini e 3 donne (6 in totale), con un range d’età compreso tra 40 e +60 anni, e un gruppo di Giovani (G), composto da 3 uomini e 3 donne (6 in totale), con un range d’età compreso tra 25 e 35 anni. Al momento del primo contatto, sono state fornite agli intervistati e alle intervistate tutte le informazioni opportune e necessarie (finalità dell’intervista, trattamento dei dati personali, garanzia dell’anonimato, ecc.). Le interviste hanno avuto una durata media di 45 minuti: le interviste del gruppo degli A hanno avuto una durata che varia da 25 a 50 minuti; le interviste del gruppo dei G hanno avuto una durata che varia da 15 a 90 minuti.

FASE DI RACCOLTA

Durante la fase di raccolta, per l’intervistatore1 è stato necessario sedare il desiderio di ricerca per puntare l’attenzione su ciò che realmente emergeva dalle interviste, come pure la trepidazione, per evitare di fare domande extra, che avrebbero rischiato di interrompere il flusso narrativo dell’intervistato o dell’intervistata e/o di fornire troppe mappe cognitive.Dalle interviste effettuate è emerso, ad una prima osservazione, che le persone all’interno del gruppo degli A (Adulti) sono apparse in generale più sicure di sé, tendendo ad esaltare positivamente le proprie competenze e capacità. Di contro, le persone appartenenti al gruppo dei G (Giovani) si sono mostrate più insicure, tendendo in parte a sottovalutare le capacità e le competenze possedute, fino a scivolare a volte in una sorta di “vittimismo”.

Nell’effettuare le interviste è stato riscontrato un certo grado di “resistenza” da parte degli intervistati e delle intervistate, soprattutto all’interno del gruppo dei G (più “vicini” all’intervistatore, in termini anagrafici). I motivi della resistenza da parte delle persone intervistate vanno ricercati:

  • nella conoscenza pregressa dell’intervistatore. Molte delle persone intervistate avevano già incontrato e/o conoscevano l’intervistatore già prima di essere coinvolte all’interno dello studio.
  • nell’asimmetria di relazione (tra intervistatore e intervistato/a). Per alcuni soggetti l’intervistatore appariva “troppo giovane”, altri lo percepivano invece come in una condizione di “superiorità”.
  • nella desiderabilità sociale. Tutti noi siamo messi continuamente alla prova dai nostri stessi pregiudizi. La desiderabilità sociale (o distorsione idealistica) è un bias di risposta, che colpisce gli intervistati e le intervistate quando devono rispondere a indagini o questionari. È una vera e propria interferenza che agisce quando fra le alternative poste, alcune risultano socialmente più accettabili di altre2.
  • nella cornice di senso (sensemaking). Viene generalmente definita come sensemaking una serie di processi attuati nel tentativo di dare significato all’esperienza, adattando i dati ricevuti all’interno di una cornice che li organizza e, allo stesso tempo, modellando la stessa cornice sulla base di questi dati3.
  • negli stereotipi legati alla professione di psicologo. Spesso la figura dello psicologo, infatti, è associata a pregiudizi, frutto di retaggi storici e luoghi comuni (leggere nel pensiero, fare diagnosi immediate, giudicare, ecc.), che determinano un certo scetticismo da parte delle persone.
  • nella configurazione della vita intrapsichica. Nel saggio “L’Io e l’Es” del 1922, Freud introduce una teorizzazione del funzionamento mentale secondo cui esistono istanze interne all’individuo che sono tra loro in relazione e/o in conflitto (seconda topica). Mentre la prima topica divideva la mente in “contenitori semipermeabili” (Conscio, Preconscio e Inconscio); nella seconda teorizzazione (che integra la prima) l’Io, l’Es e il Super-Io non sono delle aree di contenuto psichico ma delle forze in relazione tra loro. Esse non sono tutte presenti fin dalla nascita ma si sviluppano e si stabilizzano durante l’età evolutiva. L’Es è la parte istintiva di noi, quella che spinge per la realizzazione immediata di qualsiasi cosa ci faccia piacere (segue quello che Freud definisce “principio di piacere”). Questa forza interna è inconscia o talvolta preconscia. L’Io, invece, si sviluppa durante l’infanzia e si stabilizza poi nell’età adulta come quella parte di noi che (in parte consciamente, in parte inconsciamente) media tra le spinte istintive dell’Es e le richieste della realtà esterna. L’Io introduce nel piano della trattativa interna quello che Freud chiama “principio di realtà”, ovvero quella strada che non è tracciata solo dall’istinto ma che tiene conto anche di ciò che il mondo intorno a noi ci permette di fare. L’Io possiede vere e proprie risorse, i meccanismi di difesa4, che aiutano a fronteggiare le difficoltà della vita quotidiana, eppure in alcuni casi il loro impiego può trasformarsi in qualcosa di opposto e disfunzionale al raggiungimento dei propri obiettivi. La teorizzazione dei meccanismi di difesa è mutuata dall’osservazione delle più comuni reazioni delle persone a esperienze particolarmente penose o considerate insuperabili, ma anche nei confronti di situazioni relazionali comuni, che però creano difficoltà nell’integrare la sfera delle pulsioni e quella morale. Una importante terza istanza che si sviluppa durante l’infanzia attraverso le relazioni chiave che il bambino vive e che dinamicamente si mette in dialogo con l’Io e l’Es, è il Super-Io. Questo svolge la parte normativa, quella forza interna che porta con sé le regole, i limiti, che divide il “giusto” dallo “sbagliato”. Il Super-Io è estremamente importante con la sua funzione di regolazione ma può diventare altrettanto pericoloso quando diventa eccessivamente rigido e/o intrusivo rispetto alle altre forze in gioco. 
  • nella visione dell’intervista come oggetto buono/cattivo. I concetti di oggetto buono e oggetto cattivo sono stati introdotti negli anni Trenta da M. Klein (1935) per denotare i primi oggetti pulsionali della vita fantasmatica del bambino. Secondo l’autrice, il bambino, nel tentativo di superare l’ambivalenza emotivamente insopportabile verso un seno (o altri oggetti parziali o totali) vissuto a volte come gratificante e a volte frustrante, scinde l’oggetto in due parti: un oggetto buono, gratificante, sul quale proietterà il suo amore e dal quale si sentirà a sua volta rassicurato, e un oggetto cattivo, sul quale proietterà l’odio e dal quale si sentirà perseguitato. Questo meccanismo di scissione permette la proiezione su di un unico oggetto di pulsioni di vita e di morte che sono, secondo la concezione kleiniana, presenti già alla nascita.

I dati raccolti durante le interviste sono stati inseriti all’interno di una Tavola di Raccolta, la quale è stata ripartita in sette categorie ricavate dall’analisi della Teoria della ghianda di Hillman (1996), che riguardano: 

  1. Il SENTIMENTO DI SÉ (relativo all’immagine si Sé). Il concetto di Sé rappresenta l’insieme di elementi a cui una persona fa riferimento per descrivere sé stessa e riguarda tutte le conoscenze sul Sé (credenze, valori, descrizioni fisiche, ecc.). Una persona può ad esempio vedere sé stessa come una lavoratrice, come una sportiva, e così via. Il Sé rappresenta il modo in cui il soggetto appare a se stesso, in riferimento alla percezione che egli stesso ha e al segnale che riceve dagli altri. Il sentimento di Sé rappresenta la consapevolezza che il soggetto ha di sé5.
  2. Il SENTIMENTO DI UNICITÀ. Ogni persona ha una sua unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta. Ciascun essere umano, infatti, è una forma di vita in se stessa unica e irripetibile. L’uomo nasce con la sua individualità; ma c’è qualcosa che egli può fare al di là e al di sopra del materiale precostituito della sua natura, e cioè può diventare cosciente di ciò che lo fa essere la persona che è, e può consciamente adoperarsi per connettere ciò che egli è con il mondo che lo circonda.
  3. Il PERCORSO DELLA GHIANDA (attraverso il quale la «Ghianda» si esplica). “Il codice dell’anima” di James Hillman (1996) propone la tesi ormai nota, che ognuno di noi porti dentro una “ghianda”, una vocazione, una ragione di esistere, un’immagine innata di noi stessi e del nostro destino, qualcosa che non viene ereditato, nulla che predisponga geneticamente, ma neppure qualcosa che ci determina a partire dal contesto storico-culturale o dall’ambiente familiare, che può al più favorire o interferire, ma non condizionare il destino per noi preparato, anzi, da noi scelto. Infatti, ogni essere umano è dotato di un destino, di una “ghianda” unica e irripetibile che può agire nell’ordinario rendendolo a suo modo  traordinario, ossia unico, non-ordinario, non-replicabile. Attenzione però: mai confondere il “lasciare il segno” con il successo per come viene presentato; mai confondere l’essere se stessi con l’essere “stra-ordinari”. Vivere in conformità alla “ghianda” non implica alcuna superiorità rispetto all’altro: essere se stessi, realizzare la “ghianda” non sarebbe altro che aderire alla propria natura. La nozione di successo o il voler essere riconosciuti, straordinari, di fatto vengono a perdere ogni senso e attrattiva nel momento in cui si vive secondo i dettami dell’anima: vivere secondo il proprio “codice”, immagine, anima, daimon, essere fedeli ad esso, apre di fatto le porte ad una vita felice, ben vissuta.
  4. La DOMANDA SOCIALE (richieste dell’ambiente familiare/sociale). L’ambiente sociale in generale e l’ambiente familiare in particolare, in cui una persona vive e cresce, ha un’influenza diretta sullo sviluppo dell’individuo. Gli esseri umani ottengono le loro prime esperienze sociali e la realizzazione di competenze all’interno dell’ambiente familiare. Pertanto, alcuni aspetti della personalità sono un riflesso fedele dell’ambiente in cui si cresce. Questa rappresentazione si lega al concetto di “Ombra”6 teorizzato da Jung (1946). La coscienza individuale (che è il prolungamento di quella collettiva) è indissolubilmente legata e stabilisce un rapporto di reciproca interazione con l’Io; quest’ultimo ha un posto di estremo rilievo nella totalità della psiche e assume la funzione fondamentale di rapportarsi col mondo interiore e con quello esterno. La psiche umana è, dunque, una totalità conscia e inconscia allo stesso tempo. 
  5. I COMPROMESSI CON IL MONDO SOCIALE (risposte al contesto sociale). Lo sviluppo della persona si struttura come una doppia storia, ovvero una storia di superficie fatta da tutti quegli atteggiamenti, quelle abitudini e quei pensieri che privilegiano la sintonia con il mondo sociale, e una storia sotterranea, dove albergano le opposizioni, ovvero quelle abitudini, quegli atteggiamenti e quei pensieri che sono poco sintonici con il mondo sociale di appartenenza. In  pratica, si crea una distanza fra quello che l’individuo è e quello che dovrebbe essere per avere la stima di tutte le figure con cui si interfaccia nel corso del proprio ciclo di vita. In questa maniera si sviluppa quello che Fromm (1947) definisce carattere sociale, ovvero una struttura di personalità che è sintonica con l’ambiente nel quale la persona vive. I due mondi, in realtà, procedono per percorsi paralleli. Il primo si ipertrofizza e si implementa grazie ai riconoscimenti sociali che l’individuo riceve e che gli fanno adottare, in modo completo e profondo, le caratteristiche sociali del contesto in cui è immerso. L’altro mondo, quello sotterraneo, vive di riverberi, che sono fatti di veri bisogni, di desideri e di un’ideologia della vita che non collima con quella della società. Man mano che lo sviluppo procede si crea una discrepanza maggiore fra quello che C. Rogers (1951) chiama vero Sé e il mondo fittizio del Sé, condizionato dall’accettazione sociale7
  6. I PATTI CON LA VITA (rinunce/sacrificio di Sé). Il periodo storico in cui viviamo è caratterizzato da un predominante evitamento della sofferenza, che viene aggirata con la finalità di puntare dritto verso ciò che arreca piacere. Ma senza sofferenza non c’è soddisfazione: infatti, è il dolore (non in senso letterale) derivante dal sacrificio8, che è funzionale alla crescita. 
  7. La RESITUZIONE AL MONDO (libertà di prendere e dare qualcosa in cambio). Uno dei fattori essenziali nella dinamica relazionale è rappresentato dall’equilibrio fra dare e ricevere. Tuttavia va tenuto conto che la percezione dell’equilibrio tra dare e ricevere non si forma attraverso valutazioni di livello quantitativo di ciò che si riceve o si dona, quanto piuttosto sul grado di soddisfazione rispetto agli oggetti dello scambio9. Quindi è possibile affermare che il costante equilibrio tra il voler dare ed il voler ricevere, genera benessere attraverso il raggiungimento di un bilanciamento: ciò accade qualora chi riceve può anche dare a sua volta, mentre chi dà riesce anche ricevere.

Ciascuna delle categorie prese in esame è poi diventata un listato, ovvero una lista di stringhe verbali (parole, frasi minime, frasi nucleari) associate ad una o più delle categorie individuate, che sono state poi trasformate in Tavole di Analisi.

FASE DI ANALISI

Una volta raccolti tutti i dati utili alla ricerca all’interno delle categorie, si è passati alla fase di analisi. A questo punto c’era la possibilità di scegliere se esaminare i dati attraverso l’analisi delle stringhe verbali (ovvero listando verbi, sostantivi, ecc.), attraverso la grounded theory oppure attraverso l’analisi di contenuto strutturata. La prima metodologia di analisi consente di avere una visione complessiva di ogni singola colonna all’interno delle tavole, ma è molto meno accurata rispetto alla grounded theory e all’analisi di contenuto. La grounded theory (GT) è un metodo di analisi che nasce nell’ambito della ricerca sociologica ispirata al cosiddetto “paradigma interpretativo”, allo scopo di interpretare i processi sottesi a un determinato fenomeno e si colloca nell’ambito dei metodi di ricerca qualitativa. Infine, l’analisi del contenuto (content analysis) è un insieme ampio ed eterogeneo di tecniche (manuali o assistite da computer) di interpretazione contestualizzata di documenti provenienti da processi di comunicazione in senso proprio (testi) o di significazione (tracce e manufatti), aventi come obiettivo finale la produzione di inferenze valide e attendibili. Nell’ambito di questo studio si ritenuto più opportuno utilizzare l’analisi di contenuto strutturata per esaminare i dati emersi dalle interviste, poiché è un metodo di ricerca quali-quantitativo che consente di “estrarre” informazioni utili da un corpus di testi. I principali vantaggi di questa metodologia di analisi riguardano la possibilità di avere una panoramica di analisi completa e la possibilità di guadagno in termini di saturazione delle categorie prese in esame. Il principale svantaggio invece, riguarda la precisione: a differenza della grounded theory, l’analisi di contenuto è meno precisa. L’analisi di contenuto strutturata è stata fatta per ogni categoria individuata (Sentimento di Sé, Sentimento di Unicità, Percorso della Ghianda, Domanda Sociale, Compromessi con il Mondo Sociale, Patti con la Vita, Restituzione al Mondo). Durante la prima fase di analisi sono emerse, in seno alle categorie, una serie di dimensioni.

Le dimensioni ricavate dall’analisi strutturata della categoria “Sentimento di Sé / Sentimento di Unicità10 comprendono:

  • “GHIANDA”: rientrano in questa dimensione sia aspetti negativi che positivi (ad esempio, “Mi piace/Non mi piace”), il “piacit Ghianda” (il “piacere alla Ghianda”), ovvero il seguire la propria vocazione.
  • IDENTITÀ VALORIALE/VALORI: questa dimensione comprende tutto ciò che rientra nel sistema di valori degli intervistati e delle intervistate.
  • IL RICONOSCERSI DEL/DEI SÉ: comprende il riconoscimento del Sé all’interno dell’ambito lavorativo.
  • SÉ DIFFERENZIATO DAGLI ALTRI: rientrano in questa dimensione gli aspetti che differenziano il proprio Sé da quello degli altri. 
  • COLLOCAZIONE NEL MONDO: questa dimensione comprende il sistema di relazioni e la collocazione del Sé nel mondo.
  • LIMITI: rientrano in questa dimensione tutti gli ostacoli e le limitazioni (interne ed esterne) incontrate dagli intervistati e dalle intervistate durante il proprio percorso di vita.

Le dimensioni ricavate dall’analisi strutturata della categoria “Percorso della Ghianda” includono:

  • IL TRADIMENTO DELLA GHIANDA: questa dimensione comprende gli aspetti che hanno portato l’intervistato o l’intervistata a “tradire” la propria vocazione.
  • LA SCOPERTA DELLA GHIANDA: rientrano in questa dimensione tutti gli aspetti che hanno caratterizzato una riscoperta della propria vocazione.
  • L’AIUTO ALLA GHIANDA: comprende le agevolazioni e gli aiuti ricevuti durante il proprio percorso professionale e di vita.
  • LA GHIANDA OGGI: questa dimensione comprende gli aspetti che caratterizzano la Ghianda, la vocazione, ad oggi.

Le dimensioni ricavate dall’analisi strutturata della categoria “Domanda Sociale” annoverano:

  • LA DOMANDA DELLA FAMIGLIA: questa dimensione comprende le richieste (accolte, rifiutate o eluse) dell’ambiente familiare.
  • LA DOMANDA DEL LAVORO: rientrano in questa dimensione tutte le richieste (accolte, rifiutate o eluse) provenienti dall’Organizzazione per cui l’intervistato o l’intervistata lavora.
  • LA DOMANDA DEL GRUPPO DEI PARI: comprende le richieste (accolte, rifiutate o eluse) provenienti dal gruppo dei pari.

Le dimensioni ricavate dall’analisi strutturata della categoria “Compromessi con il Mondo Sociale” comprendono:

  • LAVORO: questa dimensione include le risposte (positive e/o negative) al contesto lavorativo.
  • FAMIGLIA: rientrano in questa dimensione le risposte (positive e/o negative) al mondo familiare.
  • RESTO DELLA VITA: questa dimensione comprende le risposte (positive e/o negative) al contesto culturale e di vita in generale.

Le dimensioni ricavate dall’analisi strutturata della categoria “Patti con la Vita” includono:

  • ASPETTATIVE: rientrano in questa dimensione le aspettative degli intervistati e delle intervistate.
  • RINUNCE: questa dimensione comprende il sistema di rinunce subìto o messo in atto dall’intervistato o dalla intervistata.
  • OSTACOLI/DIFFICOLTÀ: rientrano in questa dimensione le difficoltà incontrate durante il percorso di vita dagli intervistati e dalle intervistate.

Le dimensioni ricavate dall’analisi strutturata della categoria “Restituzione al Mondo” annoverano:

  • LA LIBERTÀ DELLA GHIANDA: rientrano in questa dimensione le libere scelte degli intervistati e delle intervistate.
  • AZIONI VERSO IL MONDO: questa dimensione comprende tutte le azioni compiute da parte degli intervistati e delle intervistate nei confronti del contesto professionale e/o di vita (dare e avere).

RISULTATI

Dall’esame dei listati contenuti in tutte le categorie e tutte le singole dimensioni delle Tavole di Analisi di Contenuto prese in esame, sono emersi alcuni temi chiave ricorrenti per l’intero gruppo di intervistati e intervistate.

Per quanto riguarda la Tavola I – Sentimento di Sé/Unicità, i temi affiorati comprendono:

  • GHIANDA. La percentuale di volte in cui il tema “Ghianda” ricorre all’interno della Tavola è del 25,42%. Questo tema, a sua volta, include: piacere (9,59%), interessi (3,84%), desideri (2,64%), passioni (5,52%), soddisfazioni (2,16%), ambizioni (1,68%).
  • IDENTITÀ VALORIALE/VALORI. La percentuale di volte in cui il tema “Identità valoriale/Valori” ricorre all’interno della Tavola è dell’11,51%. Questo tema, a sua volta, include: valorizzazione (2,40%), priorità (1,44%), far bene le cose (2,64%), mettersi in gioco (1,68%), impegno (1,44%), meriti (1,92%).
  • IL RICONOSCERSI DEL/DEI SÉ. La percentuale di volte in cui il tema “Il riconoscersi del/dei Sé” ricorre all’interno della Tavola è del 25,42%. Questo tema, a sua volta, include: piacere lavorativo (8,63%), soddisfazioni lavorative (2,64%), capacità (2,16%), aspirazioni (3,12%), crescita professionale (2,64%), realizzazione professionale (3,36%), sperimentazione professionale (2,88%).
  • SÈ DIFFERENZIATO DAGLI ALTRI. La percentuale di volte in cui il tema “Sé differenziato dagli altri” ricorre all’interno della Tavola è del 14,15%. Questo tema, a sua volta, include: confronto (4,32%), indipendenza (3,12%), capacità di trasmettere (2,88%), collaborazione (3,84%).
  • COLLOCAZIONE NEL MONDO. La percentuale di volte in cui il tema “Collocazione nel mondo” ricorre all’interno della Tavola è del 10,79%. Questo tema, a sua volta, include: relazioni (3,60%), ruolo (0,96%), rapporti (1,68%), esperienze (1,44%), contributo (0,96%), ambiente/contesto (2,16%).
  • LIMITI. La percentuale di volte in cui il tema “Limiti” ricorre all’interno della Tavola è del 12,71%. Questo tema, a sua volta, include: sforzo (1,44%), “avessi saputo fare, avrei fatto” (3,36%), no a cose fuori dalla propria portata/contesto piccolo per le proprie aspettative (2,40%), no approfondimento (0,96%), impazienza (1,20%), “se tornassi indietro farei” (1,68%), “non avrei avuto pazienza/non sono riuscit* ad adattarmi” (1,68%).

All’interno della Tavola II – Percorso della Ghianda, i temi emersi comprendono:

  • IL TRADIMENTO DELLA GHIANDA. La percentuale di volte in cui il tema “Il tradimento della Ghianda” ricorre all’interno della Tavola è del 25,08%. Questo tema, a sua volta, include: disillusione (3,76%), cambi traumatici (5,96%), blocchi (5,33%), trasferimenti (2,51%), stanchezza (5,02%), nervosismo/stress come causa del tradimento della Ghianda (0,94%), nervosismo/stress come conseguenza del tradimento della Ghianda (1,57%).
  • LA SCOPERTA DELLA GHIANDA. La percentuale di volte in cui il tema “La scoperta della Ghianda” ricorre all’interno della Tavola è del 38,24%. Questo tema, a sua volta, include: imparare (8,15%), soddisfazioni (3,76%), felicità (3,13%), sperimentazione (4,08%), cambiamento (4,39%), crescita professionale (2,51%), libertà professionale (2,19%), obiettivi (3,13%), esperienze (4,08%), scoperte (2,82%).
  • L’AIUTO ALLA GHIANDA. La percentuale di volte in cui il tema “L’aiuto alla Ghianda” ricorre all’interno della Tavola è del 17,87%. Questo tema, a sua volta, include: persone (2,51%), gruppo (2,19%), ambiente sicuro (2,82%), clima familiare (2,51%), collaborare (1,57%), rapporti (1,57%), connessioni (2,19%), opportunità (2,51%).
  • LA GHIANDA OGGI. La percentuale di volte in cui il tema “La Ghianda oggi” ricorre all’interno della Tavola è del 18,81%. Questo tema, a sua volta, include: prospettive (2,19%), obiettivi realizzati/raggiunti (3,76%), equilibrio (1,88%), progetti (5,02%), solidità/sicurezza (2,82%), nuove esperienze (0,94%), miglioramento (2,19%).

All’interno della Tavola III – Domanda Sociale, affiorano i seguenti temi:

  • LA DOMANDA DELLA FAMIGLIA. La percentuale di volte in cui il tema “La domanda della famiglia” ricorre all’interno della Tavola è del 14,78%. Questo tema, a sua volta, include: permessi accordati/respinti (3,48%), legami (2,61%), supporto (2,61%), sprono (1,74%), conflitti (2,61%), pressioni (1,74%).
  • LA DOMANDA DEL LAVORO. La percentuale di volte in cui il tema “La domanda del lavoro” ricorre all’interno della Tavola è del 69,57%. Questo tema, a sua volta, include: esperienza positiva/negativa (12,17%), sviluppo professionale presente/assente (3,48%), capacità (5,22%), disponibilità (6,09%), richieste (2,61%), riconoscimento e valorizzazione presenti/assenti (6,96%), controllo (19,13%), promesse (8,70%), fiducia (5,22%).
  • LA DOMANDA DEL GRUPPO DI PARI. La percentuale di volte in cui il tema “La domanda del gruppo dei pari” ricorre all’interno della Tavola è del 15,65%. Questo tema, a sua volta, include: accoglienza (2,61%), accettazione/non accettazione (4,35%), differenza di ruolo (3,48%), motivare (1,74%), difficoltà a rapportarsi (3,48%).

All’interno della Tavola IV – Compromessi con il Mondo Sociale, i temi emersi comprendono:

  • LAVORO. La percentuale di volte in cui il tema “Lavoro” ricorre all’interno della Tavola è del 44,44%. Questo tema, a sua volta, include: preferenze (6,17%), sottoinquadramento rispetto a quello che si fa (4,94%), legame con l’Azienda (3,70%), lavorare per portare lo stipendio (6,17%), non avere alternative (4,94%), delusioni (4,94%), utilizzo dello studio/lavoro per sublimare la repressione di sé (2,47%), sentimenti di fuga (3,70%), senso di sconfitta (7,41%).
  • FAMIGLIA. La percentuale di volte in cui il tema “Famiglia” ricorre all’interno della Tavola è del 28,40%. Questo tema, a sua volta, include: no forzature (4,94%), non pesare sulla famiglia (3,70%), giustificare la poca produttività (4,94%), necessità di mantenere la famiglia (3,70%), esigenze (4,94%), voglia di evasione/allontanarsi dall’autorità (6,17%).
  • RESTO DELLA VITA. La percentuale di volte in cui il tema “Resto della vita” ricorre all’interno della Tavola è del 27,16%. Questo tema, a sua volta, include: periodo difficile (6,17%), possibilità concrete (4,94%), contesto culturale che consente/non consente di fare (4,94%), aspettative non corrisposte (3,70%), accontentarsi (7,41%).

All’interno della Tavola V – Patti con la Vita, affiorano i seguenti temi:

  • ASPETTATIVE. La percentuale di volte in cui il tema “Aspettative” ricorre all’interno della Tavola è del 27,50%. Questo tema, a sua volta, include: aspettative (13,33%), forza di fare più del dovuto (6,67%), uscire dal contesto (7,50%).
  • RINUNCE. La percentuale di volte in cui il tema “Rinunce” ricorre all’interno della Tavola è del 31,67%. Questo tema, a sua volta, include: rinunce (7,50%), rammarico (4,17%), incompatibilità lavoro-vita privata (4,17%), fallimento (5,83%), svalorizzazione (6,67%), pausa (3,33%).
  • OSTACOLI/DIFFICOLTÀ. La percentuale di volte in cui il tema “Ostacoli/Difficoltà” ricorre all’interno della Tavola è del 40,83%. Questo tema, a sua volta, include: difficoltà (7,50%), fatica (5,83%), lavoro logorante (5,00%), poca flessibilità (3,33%), mancanza di stima (4,17%), paura (3,33%), incertezza (3,33%), tempi ridotti per il tempo libero (5,00%), mancanza di coesione (3,33%).

All’interno della Tavola VI – Restituzione al Mondo – Sociale –, i temi emersi comprendono:

  • LA LIBERTÀ DELLA GHIANDA. La percentuale di volte in cui il tema “La libertà della Ghianda” ricorre all’interno della Tavola è del 38,81%. Questo tema, a sua volta, include: soddisfazione (7,46%), libertà (5,97%), scelta (5,97%), crescita (7,46%), cambiamento (8,96%), decisione (2,99%).
  • AZIONI VERSO IL MONDO. La percentuale di volte in cui il tema “Azioni verso il mondo” ricorre all’interno della Tavola è del 61,19%. Questo tema, a sua volta, include: valutazione opzioni (8,96%), riconoscimento totale o in parte del lavoro (11,94%), dare e avere (7,46%), baratto (7,46%), risultati (10,45%), ricominciare daccapo (5,97%), responsabilità (8,96%).

DISCUSSIONE

Analizzando i dati dello studio è emerso che il processo di sviluppo dell’identità vocazionale, strettamente legato al tema della motivazione, coinvolge tutto l’arco dell’esistenza e viene influenzato dalle esperienze di sperimentazione di sé nei differenti contesti di vita. Il processo di maturazione delle scelte viene definito “biologico”, innato, tuttavia le fasi che intercorrono nel passaggio dalle scelte ideali alla realtà appaiono influenzate da fattori esterni (Ginzberg e Ginsburg, Axelrad e collab., 1951). L’influenza del contesto nello sviluppo dell’identità vocazionale emerge nel concetto di “scelta professionale” vista come un tentativo di realizzare un Sé sociale e, secondariamente, un Sé psicologico: le scelte professionali, infatti, appaiono principalmente determinate dalla rappresentazione del ruolo e del prestigio sociale delle professioni (Gottfredson, 1996). Lo sviluppo vocazionale risulta tuttavia determinato dallo sviluppo cognitivo, il quale permette di costruire progressivamente il concetto di Sé e una mappa cognitiva unica delle professioni. Il concetto di Sé è contemporaneamente l’oggetto della conoscenza e il soggetto dell’azione: si evolve, differenziandosi e aumentando di complessità, così come la mappa cognitiva delle professioni. Quest’ultima organizza le professioni principalmente secondo due dimensioni: la mascolinità-femminilità e il livello di prestigio. Una terza dimensione riguarda poi i campi professionali. La maturazione della scelta professionale avviene attraverso la circoscrizione, secondo le proprie preferenze, di alcuni elementi della mappa cognitiva delle professioni, rispetto ai quali le opportunità offerte dall’ambiente richiederanno compromessi logici. Nella strutturazione della mappa cognitiva delle professioni intervengono processi secondo i quali una scelta o un comportamento non conformi rispettivamente alle rappresentazioni o agli atteggiamenti iniziali, producono un cambiamento degli stessi per adattarli alla situazione attuale. Tali processi possono essere legati all’identità sociale e al mantenimento di una rappresentazione positiva del gruppo di cui si fa parte (Gottfredson, 1996).  L’esperienza lavorativa acquista un senso all’interno dello sviluppo globale della persona e dell’articolazione tra i differenti ruoli sociali che riveste. Questi ruoli sono sei (bambino/a, studente, uomo o donna nel tempo libero, lavoratore/trice, padre o madre) e definiscono lo spazio di vita. Nelle varie fasi dell’esistenza i ruoli acquisiscono un’importanza relativa dovuta all’età, alle preferenze individuali, alle strutture sociali e alle opportunità del contesto, e ciò determina differenti strutture di vita che definiscono il modo in cui i ruoli si articolano (Super, 1957). In quest’ottica, il successo lavorativo è descritto come l’insieme dinamico dei cambiamenti che intercorrono nel rapporto tra individuo e organizzazione, individuo e società, individuo e famiglia. Il concetto di Sé acquisisce un ruolo centrale nella scelta professionale. Essa è influenzata dal livello socio-economico della famiglia di origine, dalle attitudini, dalle caratteristiche personali, dalle occasioni che si offrono, e dal livello di maturità personale e professionale. La scelta professionale può inoltre essere descritta come un processo teso all’adeguamento tra sé e il proprio ambiente. Il concetto di Sé professionale riguarda la visione soggettiva di tutte quelle caratteristiche di sé che una persona considera importanti nella scelta di una professione e che possono sfociare o meno in una predilezione professionale. Il concetto di Sé appare, in questo caso, come il prodotto dell’interazione tra attitudini ereditarie, esperienze di formazione e di sperimentazione dei ruoli, e la valutazione ricevuta dalle figure di riferimento circa la capacità di ricoprire determinati ruoli. Sebbene il concetto di Sé sia abbastanza stabile, a partire dall’adolescenza le esperienze trasformano gli interessi e le competenze, perciò le scelte e l’adattamento professionali possono essere visti come dei processi in divenire.  L’identità vocazionale riguarda invece la visione oggettiva di sé, ovvero una visione stabile e coerente dei propri talenti, interessi e scopi. Quello di sviluppo dell’identità vocazionale è essenzialmente un processo di estensione e attuazione del concetto di Sé (in particolare, di Sé professionale). Il costrutto dell’identità vocazionale riflette la prontezza dell’individuo ad affrontare i compiti di sviluppo con i quali deve confrontarsi biologicamente e socialmente o a causa delle aspettative del contesto.  Le condizioni lavorative attuali richiedono alle persone la capacità di attribuire senso a percorsi professionali che appaiono sempre più frammentati da transizioni di ruolo, mobilità e ricollocazioni lavorative, che comportano un aumento dell’insicurezza occupazionale e che richiedono la capacità di gestire autonomamente la propria esperienza lavorativa. In quest’ottica si colloca il concetto di recycling, il quale indica l’eventualità che la persona, all’interno del normale percorso di sviluppo professionale, possa affrontare periodi di cambiamento sostanziale della propria carriera lavorativa anche in età avanzata (Super, 1980). Il recycling durante la vita adulta rappresenta, quindi, una modalità adattiva di fronteggiare il cambiamento. Nell’attuale scenario sociale e produttivo, caratterizzato da profondi cambiamenti che coinvolgono individui, gruppi e organizzazioni (ad esempio, flessibilità, globalizzazione, precarietà, velocità), anche la costruzione di legami stabili (ad esempio, con colleghi e organizzazioni) e della propria identità professionale diventa più complessa. Quest’ultima sembra minacciata e instabile e ciò mette in discussione uno dei capisaldi del concetto di identità: la capacità di mantenersi identici a se stessi. Il contesto attuale comporta, infatti, per le persone sia nuove possibilità (ad esempio, tenere aperte più strade), sia nuovi rischi (ad esempio, ripiegamento su di sé, frammentazione). Gli individui, muovendosi nello scenario sociale e produttivo odierno, si trovano ad affrontare nuove sfide (opportunità e rischi) e sono chiamati a mentalizzare un’esperienza frammentata, in cui è più difficile rappresentare passato, presente e futuro su un percorso lineare. Per costruire la propria identità personale e professionale e far fronte alla complessità diventa quindi importante un pensiero aperto alle flessibilità ed è fondamentale che l’individuo sia capace di ricomporre in una narrazione dotata di senso le proprie esperienze e competenze, affrontando anche gli elementi di contraddizione presenti. Le persone e le relative identità professionali e ruoli si trovano oggi a confrontarsi con un contesto lavorativo sempre più caratterizzato dalla diversità e dal confronto/incontro con l’altro, che spesso è portatore di una cultura e un modo di vivere e intendere il contesto lavorativo molto diverso dal nostro. L’identità si configura, in quest’ottica, come la costruzione sociale di un percorso in cui si è impegnati a collegare, ma anche a lasciare parti della propria storia e di sé. Nella costruzione identitaria è quindi importante sentirsi ed essere individui singoli, ma anche non essere soli e non chiudersi in sé, pena il rischio, ad esempio, di impoverire l’identità stessa (Kaneklin, 2010).

CONCLUSIONI

Come si è visto, lo sviluppo dell’identità vocazionale, in quanto processo dinamico di crescita, si realizza nel contesto della vita e della maturazione di ogni persona. Gli stadi della crescita umana (le “stagioni della vita” – Erikson, 1987) coincidono con lo sviluppo vocazionale. Questo processo di crescita e maturazione converge in un processo di unificazione personale e di costruzione dell’identità, che si realizza attraverso alcuni passaggi fondamentali. Il primo riguarda la ri-definizione della propria identità personale e culturale. Nel cammino di costruzione della propria identità vocazionale è necessario innanzitutto un processo di consolidamento della propria identità personale e culturale. Le persone portano con sé un bagaglio di esperienze e di motivazioni che sostanzialmente si riferiscono ad una identità personale e culturale già delineata. Nell’impatto con nuove identità si tratta, quindi, di ri-definire la propria identità: si suppone che la persona abbia già una certa definizione di se stessa, che cioè abbia risposto alla domanda fondamentale “Chi sono io?” ed abbia raggiunto una certa stabilità. Il secondo passaggio consiste nel verificare e consolidare l’identità vocazionale. L’identità personale giunge allo sviluppo completo quando la persona diventa capace di relazioni mature e arriva a fare una scelta di vita stabile e una scelta di valori significativi; pertanto la scoperta della propria identità vocazionale completa la formazione dell’identità personale. Rispondere alle domande: “In quale direzione devo orientare la mia vita? Per chi e per che cosa impegnare le mie energie?” conduce la persona a (ri)scoprire la propria vocazione e quindi ad acquisire una nuova identità: l’identità vocazionale. Il terzo passaggio nella realizzazione del processo di unificazione personale e di costruzione dell’identità riguarda l’assunzione graduale nella propria personalità dei tratti dell’identità vocazionale. Se è vero che la persona si unifica interiormente divenendo sempre più se stessa (identità personale) secondo ciò che è chiamata ad essere (identità vocazionale), è altrettanto vero che tutto ciò non si realizza in astratto, ma all’interno di un percorso di conoscenza e di assimilazione di una vocazione specifica e all’interno di un peculiare talento. Infine, l’ultimo passaggio consiste nell’effettuare progressive ristrutturazioni dell’identità nel corso della vita. Frequentemente si osservano degli arresti dell’identità, sia nella seconda che nella terza età, allorquando ci si trova a dover assumere una nuova prospettiva dell’esistenza, specie in relazione ai vari cambiamenti (culturali e non). Questo implica l’abbandono delle precedenti identità, se non addirittura una rottura, per integrare le nuove strutture e relazioni derivanti dalla mutata situazione. Ciò provoca una vera e propria crisi, perché la persona deve passare attraverso la dolorosa esperienza di ristrutturazione, con tutto il disagio che essa comporta. Diversamente, se non si riesce a conciliare la propria nuova identità con se stessi e con il proprio contesto, si corre il rischio di irrigidirsi e di impoverirsi sul piano personale, fino a giungere a forme di disadattamento, depressione e/o alienazione. Il mettersi a confronto con “l’arcipelago delle nostre tante identità distribuite nel corso del tempo” (Demetrio, 1996) diventa un percorso obbligatorio, in quanto sollecita processi di consapevolezza di sé e di riconciliazione che sfociano poi nell’unificazione di sé.

1 Beatrice Leonello. Psicologa Clinica e della Salute, autrice del presente studio, da questo momento definita “intervistatore”.

2 E. Erikson (1962) in questo caso parlerebbe di un “dilemma” da superare, alla base del quale entra in gioco un conflitto tra le “richieste della specie” (interiori) e le “richieste della società” (esteriori). In questo schema conflittuale si può cogliere una similitudine con quanto teorizzato da Freud (1920), a proposito di conflitto tra ES (istanze naturali e inconsce) e Super Io (istanze morali e sociali).

3 Se ogni individuo costruisce il senso a partire dalla propria esperienza, la realtà non è di per sé dotata di senso intrinseco, ma è socialmente costruita sul significato datole da chi la osserva. Nelle nostre esperienze quotidiane siamo tutti esposti ad un flusso continuo di informazioni ed eventi multiformi, casuali e caotici, che cerchiamo di ordinare con relazioni di causa/effetto e con altri tipi di strutturazione. Con queste mappe causali possiamo interpretare i flussi di esperienza dando loro senso e ordine logico in modo da predisporre il nostro comportamento. Ogni individuo riflette su ciò che gli è capitato per dargli senso, per capire che cosa lo ha generato e che cosa ne potrebbe scaturire. Spesso ci torna sopra per dargli un senso diverso da quello che gli aveva dato prima. Tutta la nostra realtà coincide perciò con il senso che le abbiamo dato. La realtà “esterna”, infatti, è ambigua e ognuno le conferisce il suo senso. Essa è priva di senso se la consideriamo a prescindere dal significato che gli individui le attribuiscono. I processi cognitivi con cui le persone costruiscono la propria realtà, dunque, consentono loro di dare senso ai propri flussi di esperienza. Ancora, K. E. Weick (1988), ha proposto il sensemaking, o creazione di senso, come processo organizzativo. Secondo l’autore, la creazione ed elaborazione del senso è un elemento chiave della resilienza organizzativa, ossia della capacità che una qualsiasi organizzazione ha di affrontare le turbolenze della complessità e di pensare ed attuare i cambiamenti necessari a fronteggiarle. Al sensemaking Weick (1988) fa precedere l’enactment, il processo di percezione, selezione e attribuzione di significato all’ambiente e al flusso di informazioni ed eventi a cui l’individuo è esposto. Individui e organizzazioni sono, dunque, in costante evoluzione in un processo di auto-formazione e costruzione di una realtà soggettiva dotata di senso e di valore.

4 Per estensione in psicologia si intendono tali tutti i meccanismi psichici, consci e inconsci, messi in atto dall’individuo per proteggersi da situazioni ambientali, esistenziali e relazionali dolorose o potenzialmente pericolose. Un meccanismo di difesa entra in azione con modalità al di fuori della sfera della coscienza: di fronte a una situazione che genera eccessiva angoscia, per esempio, l’Io ricorre a varie strategie per fronteggiare la portata ansiosa dell’evento, con lo scopo preminente di escludere dalla coscienza ciò che è ritenuto inaccettabile e pericoloso. Nella teoria psicoanalitica i meccanismi di difesa sono funzioni di un Io stabile, dal momento che servono a gestire le comuni richieste pulsionali (ambientali o interne, operate da istanze psichiche) in rapporto all’altrettanto comune coscienza morale o alle individuali capacità di fronteggiare reazioni affettive (sia considerate “positive” che “negative”). Si tratta perciò di funzioni fondamentali per l’adattamento, per operare il giusto compromesso tra pulsione e morale culturale. I meccanismi di difesa non dovrebbero essere intesi come “patologici” neppure se il loro impiego è disadattivo, dal momento che possono essere utilizzati in maniera troppo rigida, inflessibile e indiscriminata (per esempio, mancando un’effettiva situazione minacciosa), ma la loro funzione è sempre la stessa, quella cioè formatasi nel corso dello sviluppo infantile per affrontare la realtà. Nei casi in cui i meccanismi di difesa vengano impiegati in senso disadattivo, sono riscontrabili le più comuni forme di disturbo mentale.

5 Secondo W. James (1890), il Sé deriva da una costruzione personale (attiva) dell’individuo su di sé. L’autore suddivide il Sé in Io, riguardante il Sé cosciente, e Me, ovvero il Sé conosciuto attraverso: un “Me materiale”, comprendente tutto ciò cui si può fare riferimento come parte di sé; un ”Me sociale”, ovvero i riconoscimenti che si possono ricevere dagli altri; e un “ Me spirituale”, che comprende l’intero apparato degli stati di coscienza e delle facoltà psichiche. James, quindi, definisce il rapporto tra il Sé percepito e il Sé ideale: il Sé percepito equivale al concetto di sé, alla conoscenza delle abilità, caratteristiche e qualità che sono presenti o assenti, mentre il Sé ideale è l’immagine della persona che ci piacerebbe essere. L’ampiezza della discrepanza tra come ci vediamo e come vorremmo essere è un segno importante del grado in cui siamo soddisfatti di noi stessi.

6 Jung (1946) nelle sue teorizzazioni introduce il concetto di “Ombra“, che classifica anche come archetipo. Secondo l’autore, la personalità umana è caratterizzata da una parte di Luce e una di Ombra, che corrispondono al bene e al male e che andrebbero integrate. Luce e Ombra sono quindi considerati come metafore del Positivo e del Negativo, come gli aspetti della natura istintiva dell’uomo che, per incompatibilità con la forma di vita scelta coscientemente, non vengono vissute e si uniscono a formare nell’inconscio una personalità parziale relativamente autonoma. Soprattutto attraverso i sogni, il soggetto viene messo in contatto con questi aspetti della propria personalità che, per varie ragioni, egli tende a ignorare o a disconoscere. Ma nonostante la sua dimensione sociale, civile, secondo Jung, c’è una parte nell’uomo che non gli permette realmente di rinunciare alle sue origini e un’altra che, invece, gli conferisce la sensazione di aver superato da tempo una simile fase. Quest’altra parte è la coscienza che, formatasi e distaccatasi da quello stato primitivo, selvaggio, incosciente, rende quest’ultimo oggetto altro da sé, degno di critica e disprezzo. Un soggetto è spinto, poi, a scorgere negli altri quegli impulsi, quelle mancanze e quei difetti che in realtà sono suoi (appartengono alla sua Ombra) e che egli nega di possedere. Il riconoscimento dell’Ombra, quindi affrontare il proprio negativo, accettare che il Male può essere presente anche dentro di sé, accettare la propria intima natura duale, sembra essere la meta desiderata, il risultato di ogni efficace processo di individuazione. Naturalmente questo processo potrà dare all’inizio esiti negativi o comunque difficili: spesso può accadere che, durante questa fase di riconoscimento dell’Ombra, l’Io non riconosca questa sua parte oscura. L’immediata conseguenza è il rifiuto più o meno totale della propria Ombra. In questo caso si verifica una scissione: incapace di riconoscerla e quindi di integrarla in sé, l’Io allontana la propria Ombra, la condanna a vivere un’esistenza autonoma, senza alcuna relazione con il resto della personalità. Facendo questo, però, l’Io conduce una vita psichica parziale, ridotta solo alla parte in Luce della sua psiche. È proprio questo il processo che porta alla nascita della maggior parte delle tipologie di Doppio. Pensare di non possedere l’Ombra è un’idea infantile e la maggior parte di coloro che la rifiutano sono perfettamente consapevoli di questo. Solo nell’oscurità più completa si può non avere l’Ombra. La luce che ci permette di conoscere completamente la nostra psiche, inevitabilmente ci mette di fronte anche alla nostra Ombra. Ciò che appare oscuro e minaccioso, in realtà non fa solo parte di noi ma ci definisce, ci circoscrive, in qualche maniera ci dà forma, ci identifica e ci caratterizza. Per Jung solo l’Ombra occultata e allontanata risulta realmente minacciosa, l’Ombra riconosciuta e accettata, invece, è positiva, stimolante e fonte di nuova energia psichica.

7 L’individuo vorrebbe, ma non può. Deve adattarsi a quelle che sono le limitazioni dell’esserci, mentre la sua persona vorrebbe tutta la libertà dell’essere, ovvero una libertà incondizionata. Così, la sua storia è fatta da due movimenti contrastanti, sintonici con i due mondi vissuti interiormente, che sono l’obbedienza e la disobbedienza: il non perdere l’affetto e la stima delle figure carismatiche che entrano nella sua vita lo induce ad essere obbediente; l’amore per la libertà e per la sperimentazione lo spingono alla disobbedienza. Lo sviluppo dal punto di vista sociale, si completa nel corso degli anni con quella che Berger e Luckmann (1969) chiamano “socializzazione secondaria”, ovvero quel processo che induce ad interiorizzare i saperi e che determina il possesso di un lessico, di una metodologia e di una ideologia della realtà sintonica con la scelta professionale che si compie.

8 Il termine sacrificio deriva dal latino sacrificium (composto da “sacrum” e “ficium”, “rendere sacro”), e assume in questo caso uno scopo nobile e per nulla astratto. Il sacrificio è pathos che motiva e gratifica, nonostante possa recare stanchezza e sofferenza. Dietro il significato del termine sacrificio si cela quindi un aspetto non visibile, un’energia che è parte integrante dell’essere che si sacrifica. Al sacrificio vanno poi associati  i temi di ideale e rinuncia, poiché è proprio all’ideale che l’individuo fa un voto di rinuncia e quindi sacrifica una parte di sé. È il topos dell’argomento che si rispecchia nelle dinamiche delle vite di ogni persona, è la conditio sine qua non imprescindibile dal risultato che si vuole ottenere. La radice amorosa del sacrificio è la più nobile, insieme a quella altruistica, ma non è l’unica, poiché il sacrificio può essere inteso anche come prettamente personale: un esempio potrebbe essere quello di un giovane, che in condizioni economiche svantaggiate, riesce a coniugare il lavoro e lo studio, al fine di raggiungere l’obiettivo che si è prefissato sacrificando però la sua gioventù.  Il sacrificio, inteso come “rendere sacro”, crea un ponte tra consapevolezza ed inconscio. Assume la forma di necessità ritualizzata che pesca le emozioni dallo stagno dei ricordi e si compone di aspetti personali ed altruistici. Rendere sacro un gesto è dovuto al valore impresso, ma è vero anche che la valorizzazione di questo è data da chi ne giova in prima persona. Un esempio è dato da un padre o una madre che fanno più lavori per permettere ai figli di studiare, d’altro lato i figli devono accogliere e valorizzare questo sacrificio. In questo senso il sacrificio è un ponte che può collegare la vita delle persone. Infatti, se è vero che la persona pone le basi per il proprio “rito sacrificale” simbolico con l’intento di onorare un’ideale a cui fa voto per raggiungere un bene superiore, ciò che rende ancor più valore al sacrificio è la condivisione e la valorizzazione di quelli che sono gli aspetti impliciti dietro l’azione.

9 B. Hellinger (2005) indica che lo scambio dona “una felicità non regalata, ma costruita”. Dopo uno scambio reciproco ci si sente apposto, liberi e felici di aver costruito qualcosa. La vera libertà non risiede, dunque, nel dire e fare tutto ciò che si vuole, ma rappresenta la viva possibilità di scegliere in che direzione andare. È un cammino verso la riscoperta del proprio talento e del proprio potere di agire attivamente per dare il corso che si desidera alla propria vita, che è anche l’unica strada per “esistere”. Libertà allora diventa autoconsapevolezza che si configura come un aspetto fondamentale del buon funzionamento della propria personalità e delle proprie capacità interpersonali e sociali.

10 Per evitare ripetizioni e refusi, durante la fase di analisi si è deciso di unificare le categorie “Sentimento di Sé” e “Sentimento di Unicità”, poiché da esse emergevano dimensioni simili.

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